sabato 6 febbraio 2010

Grande intrigo a Smirne


Grande intrigo a Smirne

Castelvetrano (Trapani) Qualche giorno fa a Castelvetrano, in Sicilia, per una di quelle stupefacenti coincidenze, tanto detestate dai logici e così amate dagli scrittori, un signore che produce uno dei migliori olii d' Italia mi ha rivelato la parte finale della più affascinante e misteriosa vicenda archeologica del dopoguerra, iniziata nel 1958 su un treno Istanbul-Smirne.
Notate l' estrema improbabilità del luogo: a Castelvetrano venne ammazzato Salvatore Giuliano, da Gaspare Pisciotta o dai carabinieri fatti entrare in casa da Pisciotta. Circondato da una campagna bellissima, coltivata ad uliveto, potrebbe essere l' ambiente ideale per un racconto finemente paesano di Andrea Camilleri, non per risolvere un intrigo esotico e internazionale. Ma il caso è notoriamente capriccioso, divertendosi con le inverosimiglianze. La rivelazione ha un antefatto. Due anni fa un avvocato di Sciacca, Primo Veneroso, persona competente e squisita, mi aveva mostrato la sua magnifica collezione di vasi e reperti siculi, una delle più importanti dell' isola. Durante la visita ero passato davanti a due o tre pezzi completamente differenti dagli altri. Quando chiesi da dove provenissero, Veneroso mi spiegò che erano ceramiche anatoliche, appartenenti alla cultura Yortan, una nazione marittima confinante con Troia. Si sapeva poco di questa cultura: solo che era guidata da un' aristocrazia di guerrieri e che risaliva, a giudicare da un oggetto egizio trovato in una tomba, alla metà del terzo millennio avanti Cristo. Quei reperti gli erano stati regalati da un amico e non appartenevano veramente alla collezione. Stavano lì come un tocco di eccentricità. Non credo che esistano al mondo più di quattro o cinque persone capaci di emozionarsi al nome della cultura Yortan. Io sono una di queste (l' autoreferenza nei giornalisti è una pratica detestabile, ma in questo caso indispensabile). Più di trent' anni fa nel supplemento a colori del Sunday Times vennero pubblicati due lunghi articoli, corredati da meravigliosi e evocativi disegni, che ricostruivano la vicenda della sparizione del (presunto) tesoro di Dorak. All' epoca il settimanale inglese si serviva di un gruppo di agguerriti giornalisti d' assalto, chiamato inside team, per le inchieste investigative. Erano articoli di gran classe, come mai avevamo letto in Italia, scritti con brio e nello stesso tempo molto precisi e circostanziati e quelli sul tesoro di Dorak, un paese a sud del Mar di Marmara, che più di cinquemila anni fa si trovava nell' area Yortan, fecero sensazione. Rimasi talmente preso dalla storia che da allora ho sempre seguito la carriera del suo involontario protagonista, l' archeologo inglese James Mellaart, famoso per avere scoperto il più antico sito neolitico che si conosca, a Catal Huyuk, in Turchia (almeno fino a quando i recenti scavi nell' Egitto non hanno rivoluzionato tutto quello che sapevamo sulla cultura neolitica). E negli anni ho aggiornato il dossier con qualche magra notizia carpita qua e là dai bollettini archeologici. Naturalmente nessuna chiariva il mistero. La fonte principale dell' intrigo - il termine può sembrare eccessivamente hitchcockiano, ma non ce n' è un altro più adatto - rimanevano i verbali degli interrogatori condotti nei riguardi di Mellaart dalla polizia turca, anche con una certa brutalità. In un giorno dell' estate del 1958, il giovane archeologo Mellaart, vicesovrintendente di una campagna di scavi in Turchia finanziata dal British Museum, aveva preso il treno che da Istanbul andava a Smirne. Ad un certo momento, nel suo scompartimento, proprio davanti a lui, si era materializzata una giovane donna, forse salita durante una fermata secondaria. Nel primo dei due articoli sul Sunday Times la donna veniva descritta come avvenente: una bruna alta, snella, con i capelli legati a treccia, che parlava perfettamente inglese, anche se con una sfumatura straniera. Mellaart dirà di essere stato attratto, per prima cosa, non dalla sua avvenenza, ma da un braccialetto che portava al polso. D' oro, a forma di nastro, disegnato con piccoli anelli e spirali doppie. Il giovane, ma esperto archeologo aveva riconosciuto nel gioiello un reperto archeologico simile a quelli che nel secolo scorso Schliemann aveva trovato sulla collina di Hissarlik, dove sorgeva Troia. Un pezzo raro, di eccezionale fattura. I giornalisti del settimanale inglese non ricamavano: seguivano sempre i verbali (forse qualche concessione alla bellezza della donna, come si fa in questi casi. Ma, visto il ruolo per cui era stata scelta, brutta non poteva essere). Tra l' eccitato archeologo, eccitato in nome della scienza, e la gentile e reticente signorina, dovette svolgersi un dialogo che i poliziotti turchi hanno rozzamente semplificato, nella loro fretta di trovare un colpevole e che certamente è durato a lungo, intrecciato di ambiguità, di bugie o di mezze verità. Mellaart voleva sapere che cosa era questo braccialetto, da dove veniva, chi l' aveva trovato e soprattutto se esistevano altri reperti simili. La donna aveva il compito più difficile: mostrarsi lusingata dall' interesse di Mellaart, ma timorosa. Invitante, ma riservata. Gentile, ma vaga. Raccontò la sua storia. Si chiamava Anna Papastrati ed era greca, figlia di un collezionista che aveva abitato a Smirne, in una casa dove aveva raccolto molti pezzi mai denunciati all' autorità turca. Questo era avvenuto parecchi anni prima che lei nascesse. Quando Mellaart esaminerà le note scritte a mano e allegate al tesoro, si renderà conto che i reperti erano il frutto di una campagna di scavi iniziata dal padre di Anna durante l' occupazione greca di una parte della Turchia, subito dopo la Prima Guerra Mondiale. O almeno così si voleva far credere. Il territorio venne successivamente e sanguinosamente ripreso dalle truppe turche guidate da Kemal pashà, il futuro Kemal Ataturk. Ma i Papastrati si salvarono, facendosi passare per inglesi e nascondendo il tesoro, che contava centinaia di oggetti. Prima di arrivare a Smirne, l' archeologo inglese implorò la greca, che era stata abilissima nelle noncuranti descrizioni dei reperti - ci sono statuette di ragazze seminude, ricoperte solo da un corto gonnellino, che si sorreggono i seni con le mani in un gesto propiziatorio, forse delle dee - a mostrargli, anche per pochi attimi, "tutta quella roba". A partire da questo momento la deposizione di Mellaart diventa molto meno precisa, come se un comprensibile nervosismo - si trovava di fronte ad una grande scoperta - avesse annullato la capacità di ricordare con esattezza, e di ricostruire senza sbagli il percorso successivo. Sembra che solo dopo le più insistenti richieste, la Papastrati abbia accettato di condurlo in casa sua. Alle condizioni tassative di non parlare con nessuno di quello che avrebbe visto: una promessa difficile da mantenere per chiunque, e in particolare per un archeologo. Scesi alla stazione di Smirne quando era già buio, i due s' imbarcarono su un ferry-boat che li portò attraverso la baia fino al distretto di Karsyaka. E poi con un taxi raggiunsero un stradina non illuminata, persa in un dedalo di altre stradine, dove abitava la ragazza. Nella casa della Papastrati Mellaart rimase qualche giorno. La donna non voleva che i pezzi venissero fotografati, anche per uso personale, ma lasciò incomprensibilmente che venissero disegnati. Il suo atteggiamento non era cambiato, perchè la divulgazione dell' esistenza del tesoro avrebbe avuto conseguenze disastrose per la sua famiglia. C' erano figurine di maiolica, d' argento e d' oro, coppe in oro cesellato, spade, braccialetti, vasellame di ogni tipo dipinto con segni geometrici e colorati: una collezione straordinaria, che comprendeva anche reperti della cultura neolitica e calcolitica di Hacilar, corredata dalle note manoscritte e da foto ingiallite di scheletri ancora distesi in due tombe. Prima di ripartire, Mellaart riuscì ad ottenere dalla Papastrati una promessa. Se per qualche ragione avesse cambiato idea, lui sarebbe stato l' unico studioso autorizzato a rendere noto il tesoro e a scriverne. Qualche mese più tardi Mellaart ricevette una lettera della greca. I genitori Papastrati, oramai vecchi, avevano deciso di trasferirsi all' estero e di lasciare il tesoro allo stato turco. L' archeologo era così liberato dall' impegno e poteva scrivere senza preoccupazione del ritrovamento. I verbali non ci dicono cosa ne pensasse Mellaart della troppo straordinaria scelta di tempo di Papastrati padre per dileguarsi. Probabilmente l' archeologo era così preso dalla stesura della relazione che non aveva avuto il tempo né la voglia di farsi molte domande. Il 25 novembre del 1959 The Illustrated London News esce con un magnifico, lungo articolo, firmato da Mellaart e intitolato: Il Tesoro Reale di Dorak-Il primo e esclusivo reportage sugli scavi clandestini che hanno portato alla più grande scoperta archeologica dalle tombe di Ur. Il mondo archeologico è elettrizzato, ma la polizia turca, come era facile prevedere, è infuriata per essersi lasciata sfuggire un simile ritrovamento. Mellaart viene convocato dagli agenti speciali addetti al settore archeologico e interrogato. Come abbiamo già detto, il suo racconto, chiaro e dettagliato fino all' arrivo a Smirne, diventa nebuloso dal momento in cui lui e la greca hanno preso il ferry boat. Servendosi delle sue indicazioni gli agenti non solo non riescono a rintracciare la ragazza- - che a questo punto scompare definitivamente dalla vicenda - ma nemmeno a ritrovare la casa nella strada male illuminata. L' archeologo è fortemente sospettato, ma di che cosa? Di essersi inventato tutto per diventare celebre come Woolley, Evans o Carter? Di avere veramente trovato il tesoro e di averlo fatto sparire lui stesso (ma perché, allora, parlarne sui giornali)? L' incertezza si prolunga cinque anni, anche perché non esiste ancora il corpo del reato, ma solo qualche disegno. Poi, nel giugno del 1964, il giudice incaricato delle indagini archivia il caso contro l' archeologo per mancanza di elementi certi. Ma la carriera di Mellaart in Turchia è rovinata. Quel giorno della visita alla sua collezione, avevo accennato a Veneroso la storia del tesoro, senza dilungarmi troppo. Due settimane fa, sempre in compagnia di Veneroso, andai a trovare un grande, grandissimo commerciante di arte antica di cui avevo sentito parlare, Giancarlo Becchina. Possedeva un palazzo a Castelvetrano pieno di fantastiche collezioni e viveva in campagna, in un antico pavillon de chasse riadattato, circondato da un laghetto dove sguazzavano innumerevoli paperotte. Becchina si era ritirato dal commercio di opere d' arte, ora importava cemento dalla Grecia e produceva un olio verde profumato e pregiato. Era un bell' uomo di un certo portamento, affabile e gentile, che aveva mantenuta intatta una genuinità paesana, attraverso una vita eccitante e assai movimentata. Ci fece entrare in cucina, dove tirò fuori dal congelatore dei sorbetti di limone e di fragola. Aveva scoperto il modo di mantenerli morbidi anche sottozero, evitando che si trasformassero in pezzi di ghiaccio e in effetti i sorbetti si squagliavano in bocca, lasciando un sapore pastoso e delicato. Per un po' la conversazione andò avanti tra olii, gelati e un liquore che l' irrefrenabile Becchina stava producendo, quando Veneroso disse, quasi di sfuggita, che era stato l' ex commerciante d' arte a regalargli i reperti Yortan. Questa volta, intuendo di trovarmi davanti un interlocutore unico e prezioso, raccontai la vicenda per esteso, entrando nei dettagli. I giornalisti del Sunday Times, alla fine del reportage, avevano avanzato alcune ipotesi per spiegare il mistero. Una di queste ipotesi - non sostenuta da nessuna prova concreta, come le altre - inquadrava l' affair in un colossale imbroglio, organizzato da una gang di trafficanti. Partendo da un nucleo originale di reperti, trovati effettivamente in uno scavo clandestino, i falsari avevano deciso di moltiplicarlo con falsi di qualità. All' epoca la cultura Yortan era pochissimo conosciuta e bisognava trovare qualche autorevole, ma anche ingenuo studioso, che facesse conoscere al mondo la gloria delle antiche civiltà anatoliche. Era necessario che sul ritrovamento si organizzasse il più grande clamore, possibilmente con un articolo pieno di illustrazioni, in modo da poter riconoscere gli oggetti. Poi ci avrebbero pensato i falsari. La scelta era caduta su Mellaart. La Papastrati era stata un' esca e faceva parte della banda. Mentre parlavo, vedevo Becchina che ascoltava con attenzione, senza interrompermi. Ogni tanto sorrideva, facendomi segno di proseguire il racconto che sembrava dargli un certo piacere o ricordargli qualcosa di gradito. Quando la storia ebbe fine, emise un sospiro, come sollecitato da una memoria nostalgica. Poi disse, semplicemente: "Non è un' ipotesi. E' quello che è accaduto realmente, per quanto ne sappia. C' erano moltissimi falsi in giro, all' epoca, acquistati dai musei e dai collezionisti privati". Si fermò per un attimo, sorridendo un' altra volta. Infine aggiunse: "Io ho comprato il nucleo autentico, il vero tesoro". Intorno al 1970, mentre si trovava a Basilea, il suo centro di affari internazionali, Becchina venne avvicinato da un amico, un commerciante turco. Da quando i reperti Yortan erano stati messi in circolazione erano passati molti anni e qualcuno aveva cominciato ad accorgersi dei falsi. L' informa- zione aveva fatto presto a diffondersi e ora tutti rifiutavano di comprare qualsiasi manufatto anche lontanamente legato alla cultura anatolica. Il turco era in possesso solo di numerosi pezzi buoni, trovati nello scavo clandestino. Ma per un paradosso comune nel commercio dell' arte, la paura del falso annullava l' autenticità e due o tre esperti avevano dichiarato che si trattava di opere contraffatte. "Il turco era molto depresso. E' gente che si agita se non vende immediatamente", continuò Becchina. "Andai a dare un' occhiata al lotto quasi per fargli piacere. Non sono mai stato uno studioso, ma una certa pratica, un certo fiuto, non me li negano nessuno, in particolare per le ceramiche. Dal primo istante non ebbi nessun dubbio che fossero veri. Certi pezzi ti parlano. Acquistai tutti i reperti Yortan e anche altri provenienti da Hacilar, ad un prezzo francamente ridicolo e rivendendo solo una minima parte, costituita da testine di terracotta, ho guadagnato cinque volte tanto. Gli acquirenti, che si fidavano di me, erano musei, come quello del Missouri e privati". Era tardi e dovevamo ripartire. Dopo qualche lustro il mistero del tesoro di Dorak si era chiarito con l' aiuto di un signore che ora produceva olio e fabbricava sorbetti. Per Becchina era stato un buon affare - ora capivo quel senso di nostalgia per i vecchi, bei tempi - come lo era stato in precedenza per i falsari. Quanto a Mellaart, tornato in Inghilterra, continuò ad essere un' autorità sull' archeologia anatolica. L' ultima volta che ho sentito parlare di lui, si stava interessando ai motivi iconografici dei kilim, i popolari tappeti turchi. Sosteneva, con ragione, che non erano il prodotto dell' immaginazione di una cultura recente, ma che ripetevano in forme stilizzate antichissime figurazioni religiose del neolitico, che lui aveva così ben studiato. -di STEFANO MALATESTA



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