martedì 2 febbraio 2010

Lettera al direttore de Il Messaggero, agosto 2009

Egregio Direttore,

mi consenta una breve replica al servizio che mi riguarda, a firma Fabio Isman, apparso su Il Messaggero lo scorso 13 agosto e ancora una volta, come da copione, con il ‘venenum in cauda’.


Isman, aretinamente, preferisce sconoscere il fatto che vieni definito amante dell'archeologia dalla stampa e dalla prona cultura, anche se notoriamente spinto dalla venalità più sfrenata, se ti chiami Moshe Dayan e, da grande eroe di una fulminea guerra contro un esercito appiedato, hai depredato – ovviamente grazie alla notevole disponibilità di manodopera militare a costo zero - il Sinai occupato, sconvolgendo un sito archeologico che, ancor più che di storia, potrebbe dire tanto delle origini dell'uomo; se invece ti chiami Becchina e al pari di tantissimi altri nel mondo non hai fatto niente di più che operare adeguandoti a leggi, consuetudini e incoraggiamenti di paesi sovrani – in primis quello dove sei legittimamente emigrato -, che non hai mai scavato o fatto scavare un bel nulla, diventi un vituperabile saccheggiatore. E sul banco degli accusati, fatto salvo il doveroso rispetto della sovranità elvetica, di quel paese che, se non lo ha già fatto, potrebbe, volendo, usufruire della legge premiale sul pentitismo, ci finisci, ammesso e non concesso che potessero essercene i presupposti, con la compagnia sbagliata e, soprattutto, nel posto sbagliato. Il processo non mancherà di far comprendere a Fabio Isman che la verità, spesso ha quella faccia nascosta che, per ragioni non necessariamente nobili, evitiamo di immaginare e tanto meno di ricercare. Ma, in fondo, a ben pensarci, perché dovrebbe farsene carico il giornalismo moderno, se vi sorvola volentieri il magistrato d’accusa a cui competerebbe, per precisa norma, rivolgere una particolare attenzione ai fatti favorevoli all’imputato?


Cordialità.
Gianfranco Becchina



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