martedì 2 febbraio 2010

Lettera aperta al Procuratore antimafia Giancarlo Caselli, giugno 1999

Ill.mo Signor Procuratore,

la conferma definitiva della conclusione del suo impegno in Sicilia non si è fatta attendere più di tanto. Eppure, sebbene l’evento fosse nell’aria, la notizia è pur sempre di quelle che inducono a non poche riflessioni, a cominciare dall’ovvietà del copione, antico, degno di altri momenti non proprio esemplari della storia del meridione d’Italia.
Ancora una volta, quindi, una maniera caratterizzante la natura chiaramente proconsolare di un certo tipo di missioni. Le confesso che mi coglie un serio disagio. Penso alla sua opera di tutti questi anni, efficace per un certo verso, ma anche connotata da meno note situazioni, dolorose e traumatiche; penso al peggio che incombe e a questa vecchia maniera di lasciare il campo, così, senza probabilmente ricordarsi di gratificare i diretti interessati, i cittadini siciliani, di un doveroso bilancio. Quei siciliani che, avendo subìto i pesanti risvolti di una strategia che non poteva certo essere quella del guanto di velluto, seriamente somatizzando, alcuni, le laceranti conseguenze di certe azioni giudiziarie, vorrebbero capire meglio tante cose, vorrebbero risultati più tangibili di quanto non siano le sterili enunciazioni, sulla stampa più variegata, di teoremi sociologici degni di miglior causa; e vorrebbero soprattutto capire se Lei parte da vincitore o da sconfitto. Tralasciando i disoccupati, che tanto fanno demagogia, non è certamente della folla di adolescenti preda del dilagare di ogni sorta di droga che si può andar fieri, né, tantomeno, dell’impressionante recrudescenza dei furti nelle abitazioni, diventati ormai routine nell’indifferenza generale, malgrado le pubbliche dichiarazioni minimizzatrici degli addetti ai lavori. Pensi che, giusto per dirne una, recentemente dalle mie parti hanno tranquillamente svaligiato, arrecando grave danno, l’appartamento di una famigliola nel sorvegliatissimo piccolo condominio, abitato anche da un noto giudice, portando a cinque il numero di incursioni ladresche nel medesimo immobile.

Per contro ci sono i risultati, e il tempo ce ne dirà meglio, della lotta alla mafia. Gli è che proprio a questo proposito il disagio di cui le dicevo è più presente che mai. Il dubbio che mi assilla riguarda proprio la maniera con la quale si affronta la realtà criminale. Il teorema che parte dall’evidente presupposto che in Sicilia a sparare nel mucchio le possibilità di errore sono troppo trascurabili per essere prese in seria considerazione, rappresenta il vero, grande insulto all’intelligenza del più stupido dei siciliani. Tutto si direbbe utile quindi, signor Procuratore, ivi compresa ogni visione estemporanea del protagonista di turno, sia esso il più incallito delinquente o il più ambizioso investigatore. E non dico questo a caso, perché avermi indicato come prestanome di terzi, in riferimento ai miei beni, oltre che una grossa estemporaneità, denota una spaventosa incompetenza e superficialità investigativa. Quando non dovesse trattarsi di consapevole malafede.

Tengo comunque a puntualizzare che, personalmente, la sua presenza non mi è stata mai sgradita, la mia modesta neutralità sulla sua permanenza o meno è sempre stata totale. In verità non è della sua carriera che mi interesso, quanto piuttosto del suo soggiorno, della sua opera, tanto, troppo simile ad altre non meno note del passato. E’ anche alla Sicilia che penso, alle sue tragedie e all’ineluttabilità che le accompagna, a questa terra della quale tanti sembrano conoscere ogni risvolto, convinti di sé, di una certa via giudiziaria e delle relative ricette, tanto per rimanere nella tradizione.

Penso anche a me, naturalmente, ed infatti, come vede, non mi esimo dall’argomentare su vicende mie, che sono all’origine, in fondo, di questo mio sfogo che non vorrebbe, in ogni caso, debordare dalla decenza. Ne sto dicendo, sinteticamente beninteso, anche perché ben si inseriscono nella logica del tema.

Sinteticamente, dicevo, per non approfittare del suo tempo, e un po’ anche del mio. Quel che mi rimane lo vorrei impiegare meglio di quanto abbia fatto negli ultimi dieci anni. Ognuno ha le proprie ambizioni, non le pare? Quella mia si chiama creatività, che poi sarebbe quella cosa che ha accompagnato l’umanità dalle caverne ai giorni nostri. Attraverso tante nefandezze, è vero, ma anche spaziando da Omero a Socrate ed Aristotele, da Skopas o da Lisippo a Michelangelo, da Alessandro a Giulio Cesare, Shakespeare, Goethe, Dante, Manzoni, Leonardo ed Einstein.

Dieci anni rappresentano una grossa parte della vita di un individuo, ancorché la longevità fosse nel suo destino, ancor di più se ricadenti nella seconda età, quella che non ha il tempo di pazientare.

Da tanto, più o meno, dura ormai la mia odissea di indagato a tempo pieno. Indagato per mafia e per tutto il corollario di crimini che questa definizione si porta automaticamente dietro, nel merito dei quali mi sono ripromesso di non entrare, per il gran timore che ho della poliedrica fantasia di chi passa il tempo nell’orgastico impegno di incastrare l’umanità, tutta intera se un megapotere glielo consentisse.

Che vuole, signor Procuratore, una certa tendenza ad evadere dagli schemi della ragione, a volte mi conduce dove non dovrei, verso l’imprudenza di polemizzare con Lei, per esempio, sebbene privo della immunità di alcuni privilegiati. L’immunità della quale dispongo, oltre che sulla legge scritta, poggia saldamente sulla mia coscienza, che, detto per inciso, si sarebbe potuta risvegliare per tempo, in difesa di qualche briciola di valori, miseri od eccelsi che siano, che ancora potrebbero essere riconosciuti a un siciliano. E’ andata esattamente un po’ come a tanti, da queste parti, per atavica scelta di un falso buonsenso, per rassegnazione, paura e sfiducia.

Credo che pochi nutrano molti dubbi su quelli che saranno i risultati conclusivi della nefasta diffusione di un’immagine negativa della Sicilia, in corso da troppo tempo, a partire da questa terra che non riesce ad appropriarsi del buon diritto a una migliore reputazione, a reclamarlo ad altissima voce. A volte non riesco a liberarmi della sensazione di appartenere ad una etnia perseguitata al pari di altre, seppure con abile sottigliezza. Ci è dato constatare ancora una volta, in questo scorcio di millennio, che ci sono etnie più etnie di altre: quelle armene o curde non valgono certo quelle albanesi. Ocalan come Riina? Perché no, se può far piacere al potente di turno. L’idea che anche da queste parti possa trattarsi di problema etnico non sarebbe poi così strampalata. L’equazione stessa siciliano–mafioso, così diffusa nel mondo, la dice abbastanza lunga sull’opera diffamatoria e delegittimante, sul coinvolgimento sconsiderato e irresponsabile di tutto un popolo, incolpevole nel suo insieme, in un fenomeno che non è poi così esclusivo di casa nostra, come piace far credere. Siciliano uguale Riina, dunque, e tutto diventa legittimo. Onore alla Costituzione, alle garanzie che comporta, alla coscienza di ognuno e alla morale giuridica.

Mi scusi, mi sono lasciato prendere dalle divagazioni e ho perso il filo dei miei pensieri. Quel che volevo principalmente dire è che la pazienza, da un bel pezzo ormai, mi fa difetto; che il comportamento del suo ufficio nei miei riguardi non ha nulla di civile; che pretendo una decisione sul futuro che mi si vuole riservare. Il mio ruolo si è ormai esaurito, spetta adesso al suo ufficio dirmi, dopo 10 anni, se sono o meno mafioso, a trarne le ovvie conseguenze in caso affermativo, oppure, alla buonora, a lasciarmi occupare in pace della mia vita, smettendola con una tipologia di iniziative che, se pur relativamente comprensibili nell’emergenza, diventano vergognose ed indegne quando si protraggono infinitamente ed arbitrariamente nel tempo. E mi riferisco allo spionaggio telefonico, alle pretestuose perquisizioni, spettacolari ancorquando non necessario, alle eterne procedure di ogni genere, basate sul nulla, che non siano pretesti o congetture di anonimi paesani gelosi, o impennate d’ingegno di funzionari relatori incapaci di fare il loro mestiere, a perpetuazione di una inefficienza che continua a costituire linfa vitale per tutte le tensioni delle quali questa terra avrebbe bisogno estremo di fare a meno. Le è mai capitato, signor Procuratore, di soffermarsi a immaginare possibili ragioni scatenanti, al di là di quelle temperamentali, della violenza così patologica, così irrazionale, che dilaga in Sicilia? Quanta responsabilità attribuirebbe al sistema prevaricatore delle pubbliche strutture, capaci di vanificare le migliori intenzioni, oltreché le migliori idee, inducendo nei soggetti più fragili e meno disposti all’emigrazione, reazioni da “extrema ratio”? Siamo proprio certi che tanta gioventù sbandata non sia divenuta tale grazie a una realtà che, oltre che a consentirglielo, glielo abbia un poco imposto? A proposito di emigrazione, si è accorto che ultimamente è ripresa alla grande, esattamente come cinquant’anni addietro, quando era necessario vuotare il meridione per gonfiare i portafogli dei soliti noti? Ci risiamo, forse? Verrà anche il momento in cui vedremo la nostra manodopera alle dipendenze di imprenditori terzomondisti? Niente niente che non sarà un puro caso l’invasione di ogni più minuscolo paesino della Sicilia da parte della totalità delle grandi banche nazionali, molto attive nel vendere i peggiori servizi a prezzi impossibili e nel drenare risparmio, e quale se non quello dei vecchi e nuovi emigrati, sottraendolo ad una economia enormemente bisognosa di sostegno finanziario? E per impiegarlo dove, di grazia?

Questa potrebbe costituire una interessante ipotesi di lavoro alla ricerca di mafie alternative, senza lupara e con la cravatta ben coordinata.

Sono convinto che scavando, neanche tanto a fondo, verrebbero fuori delle bellissime amenità, da codice penale beninteso.

Per dieci anni, signor Procuratore, sono stato oggetto di sospetti e di indagini francamente troppo fuori dalle righe. Una ricerca caparbia di crimini inesistenti che potessero anche minimamente permettere la materializzazione di quello che altro non era se non fumo ed ancora fumo. Che ne è stato dei miei diritti e delle garanzie che mi spettano? Tanti si meravigliano di quello che sta succedendo ad Andreotti. Ma almeno lui, non fosse che per il suo ruolo di grande politico della prima Repubblica, con qualcuno avrà trescato di certo, quantomeno con i suoi pari, magari del Vaticano. E poi, c’è questa maniera di rifiutarsi di prendere in considerazione la mia disponibilità a fornire ogni chiarimento, magari utile a snellire il lavoro di tutti gli inquirenti che si sono occupati di me. Decisamente la logica giuridica non è pane per i miei denti.

Quel che desidero ancora dirle, con questa lettera che rappresenta una rinnovata dimostrazione di fiducia nell’intelligenza di chi la riceve, è che non mi pare giusto che Lei parta lasciando aperta la mia vicenda, fatta di dieci anni di sospetti, di boicottaggi anche gravi, di infamie inserite arbitrariamente in documenti ufficiali rilasciati da ineffabili funzionari dello stato, magari sol perché possono divertirsi gratuitamente. Insisto pertanto, prima della sua partenza, nel riproporre a Lei, di cui non ho mai fatto fatica a percepire rigore, scrupolo ed equilibrio, la mia disponibilità totale a chiarire qualunque aspetto della mia vita, a partire dai primi anni di esistenza, nella certezza che finirei col fugare ogni dubbio, nell’interesse di ognuno.

Anche perché sento che non può essere che Lei il mio vero interlocutore, pur trovandosi le cose sparse presso le diverse autorità giudiziarie e amministrative con le quali io continuo a fare i conti per i tanti rompicapi.

E’ anche un dovere che sento nei riguardi di tutte le persone che, malgrado i venticelli calunniosi, mi stimano e mi onorano della loro amicizia.

Mi creda

suo Gianfranco Becchina


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